
23 Ott Quando educhi NON occuparti del talento
Talento gruppi a confronto
Immagina di prendere dei bambini (o degli adulti) e dividerli in due gruppi a cui darai un test da svolgere. Quando hanno finito, correggi il test.
Al primo dirai che il test era molto difficile e che loro sono evidentemente portati per quel genere di problemi, infatti lo hanno svolto brillantemente.
Al secondo dirai che si nota che hanno lavorato duramente per risolverlo, infatti lo hanno svolto brillantemente.
Dopo di che darai ai due gruppi un nuovo test, significativamente più difficile del primo e comunque al limite delle loro capacità.
Il primo gruppo, lodato per il talento, mediamente riuscirà peggio rispetto al secondo gruppo, lodato per la capacità di lavorare duro.

Questo esperimento (insieme a studi simili) è stato svolto su adulti e su bambini in diverse configurazioni!
Il risultato è sempre lo stesso: se una persona è convinta di avere talento in qualcosa, appena incontra una difficoltà deduce immediatamente che il suo talento non è sufficiente, e quindi abbandona il compito.
Una persona invece che sa di essere in grado di lavorare duro, di fronte ad un problema più difficile, si metterà semplicemente a lavorare di più, riuscendo infine a superarlo.
I messaggi che dai ai tuoi discenti devono sottolineare come la mente sia incrementale (un buon paragone è quello con il muscolo) rinforzata e temprata dall’impegno, dalle difficoltà e dalla capacità di superare gli ostacoli.
Non sappiamo, nella storia, quanti talenti sono finiti in nulla, ma credo che ogni educatore abbia idea di quel particolare discente che sembrava promettere… e poi… ha lasciato perdere.
Come percepisci la “realtà” fa la differenza
In un interessante studio del 2007, Carol Sorich Dweck e collaboratori, hanno analizzato 373 studenti dei primi 2 anni della scuola media. Hanno osservato le reazioni degli studenti rispetto a un voto basso ricevuto.
Gli studenti che credevano che l’intelligenza fosse una caratteristica statica e non incrementale non riuscivano a reagire bene e giudicavano il fatto di dover aumentare l’impegno come una sconfitta: secondo loro l’applicazione era segno di scarsa intelligenza e soffrivano molto la situazione.
Al contrario, i soggetti che vedevano l’intelligenza come una caratteristica incrementale da sviluppare ogni giorno tramite l’impegno, prendevano il voto basso come una sfida da affrontare, un modo per mettersi alla prova, lavorando di più o cambiando strategie.

Seguendo la carriera scolastica di questi ragazzi, si è notato che i voti inizialmente erano simili. Con il passare del tempo, i ragazzi con una visione incrementale dell’intelligenza, ottenevano voti migliori e il divario aumentava con il passare degli anni.
I ragazzi che si affidavano al loro talento intellettivo erano mediamente inefficienti rispetto a quelli che si affidavano alla tenacia.
Gli studenti che vedono l’impegno e la tenacia come la cosa più importante, davanti a una difficoltà si applicano maggiormente e avendo una grande motivazione a migliorare riescono alla fine a superare l’ostacolo.
Al contrario, i ragazzi che si affidano alla loro intelligenza come un dono da sfruttare, davanti alle difficoltà tendono a evitare il problema dopo i primi insuccessi.
Il talento nella storia ha fatto brillare chi si è impegnato
Uno studio pubblicato su “The Cambdrige Handbook of Expertise and Expert Performance” ha evidenziato come il talento (o il genio) sia una combinazione di qualità innate, istruzione di alto livello e molto lavoro.
Certamente Mozart per suonare il violino a 3 anni e comporre a 7 aveva certamente un talento, tuttavia solo in tarda adolescenza ha composto la musica che lo ha proiettato fra i grandi della storia.
Einstein era uno studente mediocre e svogliato, solo quando ha cominciato a occuparsi con impegno di un campo che lo appassionava ha elaborato le grandi teorie su cui ci appoggiamo oggi.
Quindi il talento non esiste?
Non dico questo. Sostengo che un educatore (genitore, insegnante, formatore, leader, manager) deve occuparsi di altro. Premiare l’impegno. Focalizzare il discente sulla sua capacità di fare sacrifici, sulle sue abilità nell’uscire da una situazione sfidante, sulla forza che è stato capace di mettere in campo per arrivare fin lì.
Con il tempo, per lui, diventerà un’abitudine focalizzarsi sulle azioni, piuttosto che su quel “talento” che non si sa bene dove sia e non si può modificare perché… o ce l’hai o non ce l’hai…
Motivare figli, studenti, collaboratori o atleti è una capacità che si impara. Impara a comprendere l’effetto della tua comunicazione e dei tuoi schemi mentali per essere più efficace nella relazione con il discente e ottenere più risultati velocemente. Risultati che durano nel tempo.
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